Ci piaceva giocare a pallone
L’infanzia in una Romagna alle soglie del boom ma non ancora invasa dai turisti, con la gente che in agosto affittava le camere di casa propria e si ritirava a dormire in cantina. Il calcio. Il campo in terra battuta sotto casa, molta polvere e qualche sasso, che a sette anni sembra bello e maestoso come il Maracanã. Le prime partite contro i ragazzi più grandi, le trasferte in taxi – due adulti e undici-dodici bambini, “stretti stretti ma nessuno che si lamentava” -, un compagno di squadra che si addormentava in porta, il presidente che a pochi minuti dal calcio d’inizio lasciava lo stadio e andava a tirare i sassolini nella fontana del paese per smaltire la tensione, la signora che per consentire la battuta del calcio d’angolo doveva aprire la porta di casa. E poi il primo contratto da professionista con il Bologna – per scelta, nonostante un ottimo provino con la Juve -, il trasferimento dal paese alla “grande città”, la serie A, l’esordio in Nazionale, le trasferte oltrecortina in un’Europa lontanissima. Bulgarelli, Bearzot, Maradona e tanti altri. La vita e l’Italia che cambiano mentre il modo di stare in campo per Pecci resta quello di sempre, intelligente e scanzonato, lo stesso con il quale scrive e racconta non tanto o non solo i protagonisti, ma soprattutto i comprimari delle squadre in cui ha militato. Ci piaceva giocare a pallone è un ritratto poetico e nostalgico di un calcio (e di un Paese) che sembra ormai una favola, e si rivela in fondo una dichiarazione d’amore al gioco che ha segnato la vita di Eraldo e quella di milioni di appassionati, quale che sia la propria squadra del cuore.
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